Tripoli, 6 aprile 2014 – La nave tanker Morning Glory, salita alla ribalta internazionale dal 17 marzo scorso quando in una rocambolesca fuga aveva tentato di portare via un carico di greggio acquistato dai ribelli della Cirenaica fuori dal controllo del Governo libico, ha concluso le operazioni di scarico della rinfusa stivata, equivalente di 230.000 barili di greggio, presso l’impianto della raffineria di Zawia, che produce per il mercato locale di Tripoli. Dell’equipaggio della nave – 6 pakistani che includono comandante e corpo ufficiali, 6 indiani, 3 cingalesi, 2 siriani, 2 sudanesi e 2 eritrei – si è saputo da fonte diplomatica, che gli inquirenti libici lo hanno rilasciato già da qualche giorno, ma non è chiaro se e quanti hanno lasciato la Libia per rientrare nel loro paese. Non è nemmeno ancora chiaro cosa succederà alla nave, adesso che è stata svuotata. Riguardo i tre libici armati, di cui uno fratello del capo dei ribelli cirenaici, trovati a bordo dal corpo speciale militare USA, SEALs, al momento dell’abbordaggio della nave poi consegnata alle forze governative di Tripoli, se ne è reso noto il rilascio, per l’avvio dei dialoghi negoziali tra Governo centrale e ribelli cirenaici attraverso il meccanismo di mediazione più efficace in Libia, costituito dai capi anziani delle tribù.
Il dialogo si è aperto in un clima di reciproca misurazione di forze sul campo, con alcuni pesanti scontri armati tra le parti nei giorni scorsi, ad ultimatum scaduto lanciato più di due settimane fa dal presidente del Congresso libico, Nur Abu Sahmain, ai ribelli federalisti, guidati dal 33enne Ibrahim Jadhran con una milizia di circa 8.000 uomini ed il quartier generale nella città di Ajdabiyah. Dopo lo schieramento d’attacco delle forze pro-governative Shield, arrivate dalla città di Misurata, la più ricca ed occidentalizzante della Libia, e di quello difensivo delle milizie ribelli lungo la Red Wadi, un portavoce dell’Ufficio politico cirenaico dei ribelli federalisti, Al-Hasy, lasciava intravvedere uno spiraglio. Infatti, telefonicamente ribadiva a Reuters la disponibilità ad un dialogo serio, la richiesta di consegna da parte del Governo libico centrale alla Cirenaica della Morning Glory con carico e uomini e la sola condizione di cancellare l’attacco militare alla regione. Un cambiamento importante, che ha segnato la direzione del dialogo, contrariamente a quanto a caldo aveva dichiarato minacciosamente ad una tv locale Abb-Rabbo al-Barassi, nominato Primo Ministro dal Consiglio del gruppo di ribelli federalisti, che poneva la condizione propedeutica di restituzione immediata della nave e dei tre ribelli a bordo.
Certamente la recente risoluzione ONU 2146/201, che vieta l’esportazione illecita di greggio dalla Libia (cioè non autorizzata dal NOC del governo centrale libico) e prevede ispezioni in alto mare delle navi sospette, ha pesantemente scoraggiato i ribelli dall’implementare un commercio autonomo, ritenuto dall’ONU non solo illegale, ma “una minaccia alla pace, sicurezza e stabilità della Libia”. Tutte le organizzazioni armatoriali ne sono state allertate e anche la Confitarma ha raccomandato estrema attenzione agli operatori italiani prima di autorizzare attracchi e di fissare tanker per la Libia.
Nel contempo, la risoluzione ONU esorta anche a trovare soluzioni pacifiche al blocco dei porti petroliferi, coerentemente a quanto già si era delineato nella diplomazia occidentale alla conferenza “Amici di Libia” di Roma alla fine dell’anno scorso, che ha individuato nella riconciliazione nazionale tra le tante controparti libiche la priorità assoluta per ristabilire la pace e costruire il paese.
Non esattamente così la vede l’ex Primo Ministro libico Zeidan, (sfiduciato dal Congresso per la fuga della tanker carica di greggio dal porto Al Sidra controllato dai ribelli cirenaici ndr – vedi pezzi precedenti) che dalla Germania, in un’intervista esclusiva alla CNN, autoproclamandosi ancora Primo Ministro della Libia, ha invocato l’intervento delle forze di pace ONU, criticando “la cattiva valutazione” dei paesi occidentali, che già nel 2011 avrebbero dovuto mandare in Libia truppe di terra. Ma la diplomazia, saggiamente, è tiepida dinanzi alla prospettiva di un intervento diretto e continua a preparare in campi di addestramento locali o esteri le reclute che dovranno costituire l’esercito nazionale libico, per il momento ancora sulla carta. Nel paese, attualmente, ci sono gruppi di milizie regionaliste, che hanno concorso in modo determinante alla caduta di Gheddafi nel 2011 e che poi si sono rifiutate di consegnare le armi, proseguendo una battaglia di richieste a favore dei territori nei confronti del governo centrale. Quelle più forti sono localizzate ad occidente della capitale: la milizia di Zintan e quella di Misurata, la Shield, che è considerata non solo forza di contrappeso alle brigate di Zintan ma anche potenziale spina dorsale dell’esercito regolare.
Con la risoluzione ONU si è ottenuto il risultato importante di impedire ai ribelli cirenaici di entrare in possesso di ingenti quantità di denaro che inevitabilmente si sarebbero trasformate in armi. Intanto il Consiglio dei ribelli cirenaici si è spaccato con la fuoriuscita di 8 membri su 11, accusando il leader Jadhran di essere accentratore. Al momento le parti, Governo centrale e ribelli, si dichiaramo possibilisti su uno sblocco dei porti petroliferi tra qualche giorno.
LA SITUAZIONE DEL PAESE
Ma il rischio per il paese, che sta affrontando la crisi più dura dalla caduta di Gheddafi 3 anni fa, di trasformarsi in una Somalia del Mediterraneo è ancora in agguato, lacerato da schieramenti armati contrapposti di milizie, tribù e frange integraliste, che lottano ad oltranza per istanze regionalistiche e non di politica generale. Infatti, da quando è nato nel 1951, il paese non ha mai affrontato un processo istituzionale che desse il senso dello Stato alla popolazione; sia re Idris prima che Gheddafi poi, guardando solo a fedeltà e tensioni sociali, utilizzarono come metodo di governo basato su rapporti tribali, elargizioni e compagnie petrolifere, determinando allo stesso tempo un rigonfiamento generalizzato del pubblico impiego, che oggi occupa circa 1,2 mln di libici (un quinto della popolazione).
L’attuale governo centrale, a maggioranza Fratelli Mussulmani, accusato tra l’altro di essere fuori mandato scaduto un mese fa, è di fatto dinanzi a due fronti ribelli uno ad Est e l’altro ad Ovest del paese; mentre la popolazione moderata è sempre più sfiduciata per l’incapacità di arginare corruzione, malessere economico e violenza.
Alle elezioni dello scorso mese per la composizione dell’Assemblea per la scrittura della Carta costituzionale del paese, si è presentato alle urne solo il 15% dell’elettorato (500.000 persone). Una Costituzione più volte assunta a pretesto dal Governo centrale per giustificare il proprio rifiuto ad aprire sulle richieste avanzate dalle milizie federaliste cirenaiche di reintroduzione di un sistema di governo federalista (abbandonato nel 1951) formato da Cirenaica, Tripolitania e Fezzan, e di maggiore equità nella suddivisione dei proventi dell’export del greggio verso i territori che lo producono, riconoscendo alla Cirenaica la quota del 15%.
In questo periodo le TV dell’opposizione mostrano continuamente un cartellino rosso per chiedere lo scioglimento e il rinnovo elettorale del Parlamento, mentre il paese è incontrollatamente pieno di armi. A Tripoli financo il tradizionale mercato del pesce si è trasformato in una piazza a cielo aperto di compravendita di armi, mentre la criminalità comune è cresce esponenzialmente. Le strade ed i locali nelle principali città al tramonto si svuotano perché la gente non si sente sicura, mentre la minaccia terroristica al-Qaeda si evolve inquietantantemente con la recente autobomba che ha ucciso 11 militari cadetti e ferito molti altri. A Bengasi il personale ospedaliero è entrato in sciopero per chiedere sicurezza dopo una serie di sparatorie all’interno delle strutture e di autobombe all’esterno. Proprio in queste ore la maggior parte della gente a Bengasi ha fermato tutte le attività dei settori pubblici e privati, per uno sciopero generale di “civile disobbedienza”, che chiede sicurezza (la città è dilaniata da una violenza incontrollata) ed elezioni per un nuovo parlamento.
Ma sono le infrastrutture del petrolio e del gas, uniche risorse del paese, ad essere l’asso nella manica di chiunque abbia da esprimere richieste e proteste, essendo gli unici ostaggi di cui sembri importare al Governo centrale di un paese che ha difficoltà a imboccare vie di pacificazione. Blocchi e danneggiamenti si registrano in tutto il paese. Le milizie della montagnosa città di Zintan a 140 km da Tripoli, che ancora tengono prigioniero il figlio di Gheddafi Saif al-Islam rifiutandosi di consegnarlo a Tripoli ed alla Corte di Giustizia Internazionale, hanno bloccato uno dei pochi oleodotti ancora funzionanti nel paese, che dal campo di al-Wafa, nel sud ovest della Libia, porta greggio alle raffinerie di Zawiya e Tobruk. Al-Aseema TV ha diffuso la notizia che gruppi di manifestanti minacciano l’export di gas proveniente dal campo di al-Wafa al porto di Mellitah, operato dal NOC e dall’ENI verso l’Italia; pochi giorni prima, invece, è stato fermato il campo di El Feel (130.000 bpd) operato da NOC-ENI, mentre quello di El Sharara (340.000 bdp) è chiuso da settimane. A differenza della Cirenaica, in queste aree molte proteste sono condotte da piccoli gruppi indipendenti, che rendono difficili gli accordi.
Per la paralisi dell’export libico, che al momento può contare solo sulla produzione dei 2 campi offshore (capacità 80.000 bpd), il governo centrale ha forzato la Banca centrale a concedergli un prestito di emergenza di 2 mld di dollari per far fronte alle esigenze di cassa.
Giovanna Visco