Luca Brandimarte
Associate, Milano
Milano, 1 ottobre 2017 – Ai sensi dell’art. 2050 del codice civile italiano, “Chiunque cagiona danno ad altri nello svolgimento di un’attività pericolosa, per sua natura o per la natura dei mezzi adoperati, è tenuto al risarcimento, se non prova di avere adottato tutte le misure idonee a evitare il danno”.
La norma sopra citata impone a chi svolge un’attività pericolosa di risarcire i danni che ne derivino, potendo il danneggiante escludere la propria responsabilità (normalmente legata alla colpa o al
dolo) solo se lo stesso sia in grado di dimostrare di aver adottato tutti gli accorgimenti (tecnici ed organizzativi) idonei ad evitare il verificarsi di tali danni secondo la migliore tecnologia disponibile
in quel momento 5.
Per andare esente da responsabilità, pertanto, il soggetto agente non può limitarsi a provare di non aver violato alcuna norma di legge o regolamentare o di essere stato diligente, dovendo – al contrario – fornire la prova positiva di aver posto in essere, in particolare, ogni accorgimento tecnico (anche quelli più avanzati e solo astrattamente possibili) atto ad impedire il verificarsi dell’evento dannoso ed a garantire lo svolgimento dell’attività in condizioni di massima sicurezza.
Ciò – si noti – a prescindere dal costo che tali accorgimenti tecnici potrebbero comportare.
Alla luce di quanto precede, si tende ad includere la fattispecie di responsabilità prevista dall’art. 2050 c.c. tra le ipotesi di responsabilità oggettiva, vale a dire tra quelle ipotesi di responsabilità che prescindono dall’accertamento di una condotta dolosa o colposa da parte dell’agente.
——-
5 Con la conseguenza che, qualora la tecnologia ancora non offrisse, rispetto ad una determinata attività, misure adeguate
a prevenire danni a persone o cose, potrebbe ritenersi che il soggetto agente svolga tale attività senza alcuna possibilità di
prova liberatoria (salvo il caso fortuito di cui infra).
——-
Posto che – secondo questa ricostruzione – a nulla gioverebbe provare la diligenza di chi esercita l’attività pericolosa, è facile intendere come qui l’unica prova liberatoria sia rappresentata, in pratica,
dal c.d. caso fortuito, vale a dire da un evento del tutto eccezionale ed imprevedibile in grado di spezzare completamente il nesso causale tra l’attività ed il danno.
Dal momento che l’attività degli operatori terminalisti portuali si caratterizza per lo svolgimento di operazioni effettuate servendosi dell’ausilio di attrezzature di sollevamento talvolta molto complesse – come complesse sono spesso le operazioni di sollevamento e trasporto sia per lo scarico che per il carco delle navi – pare opportuno chiedersi come la giurisprudenza nazionale consideri
tali attività rispetto a quanto previsto dall’art. 2050 c.c.
Ebbene, la giurisprudenza italiana, ancorché risalente e limitata a poche pronunce, parrebbe considerare le operazioni portuali di carico e scarico nave (e in generale le attività svolte con mezzi di
sollevamento) quali attività pericolose ai sensi dell’art. 2050 c.c6.
Di conseguenza, è bene che gli operatori portuali prestino grande attenzione alla disciplina dettata dall’art. 2050 c.c. (anche in sede di conclusione dei contratti assicurativi diretti a coprire la propria
responsabilità). Se pensiamo, in particolare, al contesto delle operazioni portuali, anche alla luce del continuo miglioramento delle tecnologie in materia di sicurezza, parrebbe corretto ritenere che l’operatore debba essere sempre dotato delle c.d. Best Available Technologies (“BAT”), vale a dire della migliore tecnologia disponibile per lo svolgimento della propria attività, per quantomeno tentare di andare esente da responsabilità in caso di sinistro.
Vista la stringente interpretazione che la giurisprudenza parrebbe dare della disciplina dettata dall’art. 2050 c.c., pare quindi opportuno che tutti gli operatori considerino sempre – anche sotto
questo punto di vista – la propria dotazione di mezzi ed attrezzature, e che inoltre prestino la dovuta attenzione nella copertura assicurativa della propria responsabilità derivante dall’esercizio di
un’attività che, come abbiamo visto, i giudici italiani tendono a considerare pericolosa.
La prova liberatoria per andare esenti da responsabilità in caso di sinistro, infatti, parrebbe consistere – come si dice in questi casi – in una “prova diabolica”.
—————–
6 Riportiamo qui di seguito due massime a nostro avviso significative:
1. “Per attività pericolose, in relazione al cui svolgimento l’art. 2050 c.c. stabilisce una presunzione di responsabilità a
carico di chi la esercita, debbono intendersi quelle che sono qualificate tali dalle norme speciali contro gli infortuni
sul lavoro e, altresì, quelle che abbiano insita la pericolosità nei mezzi adoperati e nella loro stessa natura ancorché
trattasi di attività di carattere tecnico svolta da enti pubblici. Pertanto, deve intendersi pericolosa l’attività di esercizio
di una gru da parte del Consorzio autonomo del porto di Genova (che è ente pubblico economico) perché tale
definita sia dalla normativa emanata dallo stesso consorzio, sia dall’art. 1 del t.u. delle disposizioni per
l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali di cui al d.P.R. n. 1124 del
1965” (Cass. Civ., Sez. III, 01/07/1987, n. 5764);
2. “A norma dell’art. 2050 c.c. – secondo cui l’attività generatrice della responsabilità deve essere pericolosa per sua
natura o per la natura dei mezzi adoperati – sono da considerarsi “pericolose” le operazioni di carico e scarico di
navi con mezzi meccanici ed il trasporto per condutture di petrolio greggio, ma non le operazioni che coordinano
quelle attività, se ed in quanto non si connettono con esse, ma con esse interferiscono dall’esterno attraverso una
condotta che si concreta in un intervento meramente organizzativo di per sé non concorrente alla produzione del
risultato” (Cass. Civ., Sez. I, 09/12/1996, n. 10951).