MARE MOSSO – L’Africa del Nord sarà la Cina del Mediterraneo?

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Da anni nei ragionamenti portuali italiani i traffici inframediterranei rappresentano una voce importante di crescita, prospettando nelle pianificazioni di lungo periodo rassicuranti numeri sostenuti dagli incrementi dei mercati di consumo, di produzione e di scambio tra le sponde. Insomma, finora l’inframediterraneo è stata la speranza di uno sviluppo della logistica italiana marittima e portuale basata sulla centralità delle Autostrade del Mare e dello Short Sea Shipping tra l’EU ed il resto del Mediterraneo. Ma alla luce dei recenti accadimenti nordafricani le prospettive non sembrerebbero più così scontate. Partiamo dai dati geopolitici. Il popolo arabo, che da oltre due mesi si sta mobilitando in varie forme di rivolta e di protesta sociale, complessivamente ammonta a 360 milioni di persone – 400 milioni nelle previsioni 2016 – di cui più del 60% di età inferiore ai 25 anni, delineando una società giovane, dinamica e con una fortissima richiesta di occupazione, attualmente fortemente insoddisfatta. Questo dato si è poi impattato con l’aumento indiscriminato dei prezzi al consumo dei generi alimentari di prima necessità (farina, olio, zucchero) che in pochi mesi sono più che raddoppiati per effetto delle quotazioni delle derrate sui mercati internazionali nella seconda metà del 2010. Al di là di diversi fattori negativi come il cambiamento climatico, ha pesato soprattutto l’irresponsabile comportamento del mercato finanziario dei futures, che hanno transato in Borsa più di 40 volte la reale disponibilità del grano e più di 20 quella del mais, producendo un devastante rincaro. Da qui è partita la destabilizzazione dei regimi autocratici arabi in conseguenza delle rivolte popolari che si sono estese a macchia d’olio, che, ben lungi dalla richiesta di “occidentalizzazione”, come alcuni osservatori parrebbero ventilare, si motivano con le gravi condizioni socioeconomiche della popolazione, come quelle in cui riversa l’Egitto, 80 milioni di abitanti, primo importatore mondiale di grano con 10 milioni di tonnellate all’anno, il cui basso reddito procapite famigliare è per l’80% speso per l’alimentazione (contro il 15-20% delle famiglie europee), che tradotto in termini concreti ha significato quel che ad esempio è accaduto in Algeria, dove un chilo di zucchero da 70 dinari (25 centesimi di euro) è schizzato in pochi mesi  a 150 dinari. Certo se questo fosse avvenuto, come accade, negli sconsolati paesi del Centro e del Sud Africa, la cosa avrebbe a malapena sfiorato poche menti occidentali, neanche un tg serale vi avrebbe dedicato qualche secondo. Invece è accaduto nel cuore del Mediterraneo, su una ampia striscia di terra semidesertica che va dal Marocco a Suez e da lì si apre fino all’Iran, e la portata degli stessi fatti è cambiata, con conseguenze di livello mondiale. I paesi arabi per un motivo o per un altro sono vitali agli equilibri internazionali, per il greggio, per il gas, per Suez, per il Bahraim (base della V flotta militare USA per l’Afghanistan e l’Iraq), per il terrorismo, per la disponibilità finanziaria. Ma fra tutti è la Libia quello che oggi sta trainando e condizionando i processi geopolitici internazionali. I motivi sono i suoi enormi giacimenti di greggio, quelli di gas naturale e gli oltre 60 miliardi di dollari, l’equivalente del bilancio di uno Stato, investiti in vari paesi soprattutto occidentali dalla famiglia Gheddafi attraverso la Libyan Investment Authority e la Lybian Arab Foreign Investment Company (Lafico). Poi ci sono le ricche commesse e concessioni che interessano non solo i paesi occidentali, in primis l’Italia, ma anche la Cina per miliardi di dollari, impegnata nello sfruttamento dei pozzi petroliferi, nelle telecomunicazioni, nella costruzione di linee ferroviarie e di oltre 20.000 abitazioni, impiegando nei campi di lavoro libici oltre 30.000 cinesi, che ora stanno lasciando rapidamente il paese.

A presidiare il loro controesodo per la prima volta una fregata della marina militare cinese, la Xuzhou, che ha lasciato il servizio antipirateria nel Golfo di Aden (come analogamente hanno fatto Olanda e Corea del Sud sguarnendo il presidio di sicurezza per le navi commerciali, su cui Confitarma è intervenuta nei giorni scorsi denunciando il pericolo di una forte recrudescenza pirata a danno degli equipaggi, dei carichi e delle navi) per posizionarsi di fronte alle acque territoriali libiche. È la prima volta che la Cina si impegna in un’azione NEO (Non-Combatant Evacuation Operation) e questo segna un cambiamento importante nella sua politica con i paesi esteri, finora contraddistinta dalla non ingerenza negli affari locali. Infatti, si è creato il precedente di un intervento militare a difesa dei connazionali espatriati in aree politicamente volatili, che potenzialmente per la Cina oggi sono rappresentate da Congo, Sudan, Burma e Pakistan, nei quali complessivamente vi sono attualmente “dislocati” 10 milioni di cinesi.

Ma la Cina assume un peso notevole nel futuro del Mediterraneo anche per altri aspetti. Alcuni osservatori asiatici ritengono che il Nord Africa possa diventare per l’Occidente una valida alternativa alla Cina. La sua vicinanza geografica all’EU ed opportune riforme interne, potrebbero dare impulso alla creazione di un ampio bacino produttivo manifatturiero a costi competitivi, con accesso preferenziale ai mercati di consumo europei, come già avviene per l’abbigliamento prodotto in Egitto. Uno sviluppo industriale nordafricano potrebbe competere anche per gli approvvigionamenti del continente africano, di Nigeria e Ghana ad esempio, che attualmente vengono forniti dai distretti industriali e commerciali di Guangzhou e Bankok, mentre aziende già insediate potrebbero pensare riorganizzare la produzione degli impianti, come ad esempio la Nike che attualmente impiega 200.000 unità in Vietnam e solo 5000 in Egitto. Insomma l’Egitto potrebbe  diventare il Vietnam mediterraneo rispetto ad esempio alla Turchia.

In altre parole, il Nordafrica potenzialmente è un nuovo  focus globale, anche di riequilibrio rispetto al peso finanziario e produttivo sempre più pericolosamente concentrato sulla Cina. Un’ondata di riforme in Nord Africa conseguite con strumenti diplomatici di pace, rispettosi dell’autodeterminazione dei popoli – e certamente non con disastrosi interventi militari oltretutto dagli incerti esiti – potrebbe favorire un programma condiviso di investimenti produttivi e l’impiego occupazionale dei giovani arabi, riducendo drasticamente il fenomeno della immigrazione. Su questi argomenti, nessuno più di porti e armatori italiani impegnati nello SSS può dare un contributo decisivo, una volta tanto politico, nel prendere una posizione pubblicamente chiara e mettendo a disposizione i canali di comunicazione commerciali e di economia reale costruiti singolarmente in tutti questi anni con i paesi dell’altra sponda. Il punto è sollecitare la ricerca internazionale di un nuovo equilibrio geopolitico, accompagnando i paesi arabi allo scavalcamento del dualismo che li potrebbe attanagliare con risultati di preoccupante instabilità internazionale, in cui configgono l’antiamericanismo, che favorisce e rafforza la Cina, ed il sentimento anticinese che sta aleggiando nel mondo arabo per la forte presenza territoriale dei cittadini asiatici che ricorda il doloroso passato colonialista.

C’è infine ancora un altro aspetto da considerare. Il mondo arabo in rivolta costituisce una preoccupazione  di politica interna per la Cina di Hu Jintao, per il pericolo che la protesta possa contagiare il malcontento popolare cinese, passando per la Regione Autonoma dello Xinjiang, a maggioranza mussulmana, e per il Tibet. Preventivamente, il governo cinese ha stretto ulteriormente le maglie dei controlli sia informatici che di polizia, ma contemporaneamente sta cominciando a pensare di intervenire decisamente sulla corruzione che dilaga nelle Provincie cinesi. La Cina ha grande bisogno di stabilità interna, specialmente adesso che la fase di forte crescita dello start up è ormai superata, ed il mantenimento degli investimenti stranieri, che alla fine del 2010 ammontavano a 106 miliardi di dollari, si fa più complesso.

Giovanna Visco

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