Mare Mosso – COSA BOLLE IN PENTOLA NEGLI ALTI MARI ITALIANI?

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Nelle campagne contadine era in uso un pentolone sul fuoco per il pasto della famiglia dove ci si metteva dentro tutto il commestibile che stagioni, miseria e natura passavano. Il minestrone insomma, una mi­scuglio di avanzi ribolliti e di provvidenziali ingredienti. Oggi tutto è cambiato, ma la metafora antropologica resta.

Marina Monassi come un gatto ha riagguantato la carica di Presidente del porto di Trieste alla scadenza di Boniciolli, che le era subentrato nel 2006 dopo la sentenza di rimozione su ricorso di Riccardo Illy, che le aveva contestato le moda­lità di nomina. Un fatto che forse sarà pesato anche sulla decisione di dimettere il porto da Assoporti e da Nerli. La stessa, almeno fino all’anno prossimo in cui si rinnoverà il Consiglio, è componente del CdA e Vicepresidente di Unicredit Corporate Banking e nel contempo è Direttore generale di Acegas-Aps SpA, la multiutiliy per la fornitura di acqua, gas e altri servizi collaterali quotata in Borsa e sorta nel 2003 dalla fusione di Acegas del Comune di Trieste e di Azienda Padova Servizi del Comune di Padova, che oggi detiene anche il 100% della bulgara Rila Gas ed il 90% della serba SIGAS.

Paolo Costa, Presidente della AP di Venezia, vuole a tutti i costi la piattaforma offshore container, sponsorizzata politicamente dal Ministro Brunetta, collegata alla terraferma da un artificioso fiume fatto di numerosi barconi che andranno su e giù e dichiara guerra santa ai servizi tecnico-nautici all’insegna della competitività – come se i porti italiani non fossero marittimi, esposti a mari e venti aperti, con fondali in conti­nuo movimento e con spazi molto ristretti e congestionati – che poi però ripiega in un cassetto quando aumenta sensibilmente i canoni concessori ai terminalisti per spese di security.

Poi il Napa che mette insieme i porti commerciali alto­adriatici per raggiungere gli standard dimensionali coerenti con i parametri di traffico basati sul tonnellaggio dell’UE per la determinazione dei porti prioritari, bypassando tutte le questioni (aperte e presumibilmente non chiudibili) del fatto che il sistema poggerebbe su 3 porti italiani (Ravenna, Trieste e Venezia), uno sloveno (Koper) e un altro croato (Rijeka).

La piattaforma di Monfalcone di Unicredit e Maersk, sponsorizzata dal Ministro Frattini, è quasi del tutto morta, non per ragioni di valutazioni nazionali economiche e politiche, ma per il contendere di tre Ministri del Governo che non ha portato il Presidente del Consiglio alla firma del decreto che sottende la messa in opera del progetto Unicredit.

Sull’altro versante alto, invece, quello tirrenico, un fatto per tutti: la recente nomina a Presidente  del Consiglio di Territorio di UniCredit per la Liguria del Presidente della AP di Genova Luigi Merlo, che così rivestirà un doppio ruolo, speriamo recitando il fiorentino rinascimentale Lorenzo e non il greco Paride.

Al centro, nella Roma gioia e dolore della Padania, la VIII Commissione del Senato, dopo un confronto durato 9 anni raggiunge una posizione condivisa tra maggioranza e opposizione sui disegni del nuovo testo di riforma dei porti, riu­scendo a inglobare anche l’azione “fuori gioco” del Ministro Matteoli di presentazione di un testo indipendente.

Ciononostante, la riforma che prospetta il testo è una “riformicchia” a sentir gli umori e non lascia nessuno contento. Quindi un disegno che se anche diventasse legge, in un lasso di tempo molto inferiore alla speranza di vita  di una riforma, ci ritroverebbe a discutere nuovamente di porti.

 

 

 

Tutto questo merita qualche riflessione, anche da parte di chi ha il ruolo di spettatore.

La concorrenza tra i porti è quella molto spesso tra terminalisti di una stessa tipologia di traffico. Dai ragionamenti e dalle azioni intraprese dalle Autorità portuali si delinea un disegno che tende invece ad escludere l’industria terminalista portuale e ad introdurre, come fossero cambiali a garanzia dello sviluppo dei porti e degli investimenti, il coinvolgimento diretto nei porti di quelle poche compagnie di navigazione soprattutto container, per l’alto valore aggiunto della merce che trasportano, che sono imprese di servizi sostanzialmente di economia derivata. Il numero di queste si conta sulla punta delle dita di una mano, hanno dimensioni enormi  e logiche di costi, perdite e ricavi multinazionali, fuori da qualsiasi  legame con il territorio, sviluppando un’attività di mercato (che si contendono tra di loro ma che difendono unite contro l’ingresso di altri), opzionabile in qualsiasi momento a seconda delle ciclicità dell’economia con un giro di prua.

Seconda riflessione. Ci si paragona continuamente con Rotterdam o Anversa, porti di dimensioni ciclopiche e con un facile accesso geomorfologico e infrastrutturale ai mercati che si perdono fin nelle recondite viscere della Russia. Si visitano quei porti in cerca di modelli da imitare e riprodurre, senza considerare che siamo una realtà portuale con caratteristiche e potenzialità diverse e non per questo poco interessanti.

Si apre anche un problema di definizione delle funzioni della AP, che finora si è per lo più dedicata a promuovere il proprio porto verso il mare, spesso ricercando rapporti diretti con l’utenza dei terminal, senza neanche sfiorare il fenomeno dell’allontanamento dai porti nazionali dei caricatori/ricevitori delle merci, che preferiscono i gates del Nord Europa invece di quello portuale a poche decine di chilometri di distanza. Gli sforzi di governance e di promozione del porto devono essere finalizzati alla nave o alla terra, intesa come origine e destinazione dei flussi dei traffici e come rimozione dei colli di bottiglia che inibiscono i collegamenti terrestri? I terminal portuali gestiti dai privati, i servizi portuali e i lavoratori portuali, insieme determinano indici di produttività, di efficienza e di sicurezza superiori alla media europea, ma manca una seria riflessione, che sarebbe opportuna quanto auspicabile, in merito alla autonomia funzionale delle Autorità portuali che sia coerente con la portualità industriale italiana.

Infine le banche. Spesso si sente dire che una banca deve fare affari. Ma la banca non era quell’elemento di raccordo razionale dell’economia reale tra risparmio e investimenti? tra consumo e produzione?  Certo che si voglia più o meno Stato nel mercato, resta sempre saldo il principio di demanialità e di bene comune espresso attraverso provvedimenti legislativi e sistemi di redistribuzione di risorse e servizi, nati da quei valori di “libertà uguaglianza e fratellanza” di quel famoso 14 luglio 1789. Invece oggi in Italia tutti fanno tutto e le banche diventano anche imprenditori e legislatori, mettendo il governo in una posizione di sportello esecutivo, pianificando modelli economici futuri di poche e grandi imprese. Una volta le banche avevano prestigiosi centro studi per osservare e seguire i mercati. Adesso invece tendono a condizionarli direttamente, entrando nei CdA delle imprese, in barba qualsiasi concetto etico di conflitto di interesse, visto che in Italia tale etica è totalmente assente, forse perché la Santa Sede non se n’è mai interessata, chissà perchè.

In tutto questo ancora continua il monopolio di fatto del gruppo FS, di proprietà del Ministero dell’Economia, sull’infrastruttura ferroviaria merci e passeggeri, quella su cui sono riposte molte speranze di riduzione di CO2 ma anche la crescita dei traffici portuali.

 

G.V.

 

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