AFFAIRE “AQUARIUS” E LACUNE DEL DIRITTO INTERNAZIONALE MARITTIMO

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Il caso Aquarius ha posto alla ribalta nazionale ed internazionale l’annosa questione degli obblighi di salvataggio imposti da ciascuno Stato contraente, ai comandanti delle navi mercantili e alle navi pubbliche di propria bandiera dalla Convenzione SOLAS (acronimo di Safety of Life at Sea) del 1974, dalla Convenzione internazionale sulla ricerca e il salvataggio marittimo, adottata ad Amburgo nel 1979 (SAR) e della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (UNCLOS) approvata a Montego Bay il 10 dicembre 1982, diretta emanazione dei principi consuetudinari di solidarietà marinara messi in campo con la Convenzione internazionale per l’unificazione di alcune regole in materia di collisioni fra navi adottata a Bruxelles nel 1910. Il suo art. 8 stabiliva infatti che “A seguito una collisione fra navi, il capitano di ciascuna di esse è tenuto, in quanto lo possa fare senza serio pericolo per la sua nave, il suo equipaggio e i suoi passeggeri, a prestare assistenza all’altro bastimento, al suo equipaggio e ai suoi passeggeri”.

Come è noto Aquarius è una nave da ricerca e soccorso (SAR) della organizzazione non governativa internazionale italo-franco-tedesca SOS Méditerranée (MSF), precedentemente appartenuta alla Guardia costiera tedesca con il nome di Meerkatze e che attualmente batte bandiera di Gibilterra.

La Convenzione del diritto del mare del 1982 (ratificata dall’Italia nel 1994) stabilisce all’articolo 98 che “Ogni Stato impone che il comandante di una nave che batta la sua bandiera, nei limiti del possibile e senza che la nave, l’equipaggio ed i passeggeri corrano gravi rischi a) presti assistenza a chiunque si trovi in pericolo in mare; b) vada il più presto possibile in soccorso delle persone in difficoltà se viene informato che persone in difficoltà hanno bisogno d’assistenza, nei limiti della ragionevolezza dell’intervento”.

Le disposizioni UNCLOS vanno integrate con la Convenzione firmata a Londra il 28 aprile 1989 sul Soccorso in Mare (Salvage) che, all’art. 10, così dispone: “Ogni comandante è obbligato, nella misura in cui ciò non crei pericolo grave per la sua nave e le persone a bordo, di soccorrere ogni persona che sia in pericolo di scomparsa in mare. Gli Stati adotteranno tutte le misure necessarie per far osservare tale obbligo”. Il secondo comma prevede che gli Stati costieri creino e curino il funzionamento di un servizio permanente di ricerca e di salvataggio adeguato ed efficace per garantire la sicurezza marittima e aerea e, se del caso, collaborino a questo fine con gli Stati vicini nel quadro di accordi regionali.

La Salvage ha integrato la corrispondente disciplina del nostro Codice della Navigazione di cui restano in vigore gli artt. 69 e 70 dello sul “soccorso a navi in pericolo e a naufraghi” e sullo “impiego di navi per il soccorso”. Vi si legge “L’autorità marittima, che abbia notizia di una nave in pericolo ovvero di un naufragio o di altro sinistro, deve immediatamente provvedere al soccorso, e, quando non abbia a disposizione né possa procurarsi i mezzi necessari, deve darne avviso alle altre autorità che possano utilmente intervenire. Quando l’autorità marittima non può tempestivamente intervenire, i primi provvedimenti necessari sono presi dall’autorità comunale” e “L’autorità marittima o, in mancanza, quella comunale possono ordinare che le navi che si trovano nel porto o nelle vicinanze siano messe a loro disposizione con i relativi equipaggi”.

In base alla Convenzione SAR (a cui l’Italia ha aderito con D.P.R. 28 settembre 1994, n. 662 concernente regolamento di attuazione della legge 3 aprile 1989, n. 147) tutti gli Stati costieri del Mediterraneo sono tenuti a mantenere un programma di assistenza e salvataggio e devono coordinarsi tra di loro. Il Mar Mediterraneo è stato suddiviso tra i Paesi costieri nel corso della Conferenza IMO (International Maritime Organization) di Valencia del 1997.

Per l’Italia, il responsabile per l’applicazione della Convenzione è il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, mentre l’organizzazione centrale e periferica è affidata al Comando generale del Corpo delle Capitanerie di porto e alle relative strutture periferiche.

La Convenzione SAR si fonda sul principio della cooperazione internazionale. Le zone di ricerca e salvataggio sono ripartite d’intesa con gli altri Stati interessati. Tali zone non corrispondono necessariamente con le frontiere marittime esistenti. Esiste l’obbligo di approntare piani operativi che prevedono le varie tipologie d’emergenza e le competenze dei centri preposti.

I poteri-doveri di intervento e coordinamento da parte degli apparati di un singolo Stato nell’area di competenza non escludono, sulla base di tutte le norme più sopra elencate, che unità navali di diversa bandiera possano iniziare il soccorso quando l’imminenza del pericolo per le vite umane lo richieda.

Nel recente passato sono stati approvati dall’IMO alcuni emendamenti alla Convenzione SOLAS (resa esecutiva in Italia con legge 23 maggio 1980, n. 313) ed alla citata Convenzione SAR adottati nel maggio del 2004 ed entrati in vigore il 1 luglio 2006. La SOLAS aveva previsto che gli Stati parte organizzassero meccanismi di comunicazione e coordinamento in situazione di distress (sofferenza) in mare nelle loro “rispettive aree di responsabilità” e “per il salvataggio di persone in pericolo “intorno alle loro coste” (Capitolo V, Regola 7).

In particolare nei punti da 6.12 a 6.18 della risoluzione del Maritime Safety Committee (MSC) 167 (78) adottata il 20 maggio 2004 (Guidelines on the treatment of persons rescued at sea) si stabilisce che lo Stato responsabile della zona SAR in cui è avvenuto il salvataggio di persone in pericolo sia tenuto a fornire, al più presto la disponibilità di un luogo di sicurezza (“place of safety”) luogo dove le operazioni di soccorso si considerano concluse e la sicurezza dei sopravvissuti, ovvero la loro vita, non è più minacciata; le necessità umane primarie come cibo, alloggio e cure mediche possono essere soddisfatte; e possa essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella destinazione vicina o finale. In conformità al principio 6.14, anche la nave che ha portato assistenza può essere considerata un luogo sicuro, ma solo a titolo provvisorio.

Gli emendamenti in questione hanno lo scopo di assicurare sia l’obbligo dei comandanti delle navi di prestare assistenza sia l’obbligo degli Stati aderenti alla Convenzione di cooperare nelle situazioni di soccorso in mare.

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Lo stabilire la responsabilità dello Stato costiero nel portare a termine l’operazione di soccorso non crea comunque un vero e proprio “diritto di ingresso al porto” o di “diritto di sbarco”.

Lo Stato costiero ha un obbligo “residuale” di autorizzazione all’ingresso e allo sbarco che trova applicazione unicamente quando non è stato possibile individuare nessun altro luogo sicuro.

Il problema dell’individuazione del porto in cui fare sbarcare il naufrago evidenzia la principale lacuna delle norme internazionali summenzionate ossia l’assenza di regole chiare circa l’individuazione dello Stato che, dopo il primo soccorso, deve farsi carico dei soggetti tratti in salvo.

Il caso Aquarius mette in luce questa lacuna perché se la Convenzione SAR è molto precisa sulle responsabilità delle autorità di coordinamento riguardo all’individuazione del porto sicuro per lo sbarco, non è chiara invece sul fatto che debba trattarsi anche del porto più vicino.

Criterio adottato dalla prassi per individuare il porto più vicino è la situazione di “vessel indistress” (Annesso al capitolo 1, paragrafo 1.3.11 della Convenzione SAR) ossia quando a bordo di una nave siano vicine all’esaurimento le riserve d’acqua e di cibo a bordo e a rischio le condizioni di salute dei naufraghi. Il problema è che molti paesi rivieraschi per ragioni di natura politica o geografica non riconoscono l’operatività di queste Convenzioni internazionali.

L’Italia è stato il primo Paese del Mediterraneo a delimitare la propria zona di competenza SAR con i Paesi frontisti attraverso specifici “Memorandum of understanding”, sulla cooperazione nelle operazioni di ricerca e soccorso. Tali zone SAR sono state comunicate nel corso dell’apposita Conferenza IMO di Valencia del 1995 ed accettate senza opposizioni dagli altri Stati frontisti, con l’eccezione di Malta che reclama unilateralmente una vastissima zona SAR, coincidente con la propria “Flight information Region” (FIR), il tutto in assenza di norme internazionali che stabiliscano la coincidenza tra zone SAR e zone FIR. L’enorme zona maltese, coincidente con la sovrastante FIR, si sovrappone con quella italiana in più aree, compresa quella delle acque territoriale delle Isole Pelagie e con la la nozione di place of safety in cui trasportare i naufraghi salvati nella propria SAR. Malta sostiene essere non Valletta ma Lampedusa, se più vicina al luogo del soccorso.

Il paradosso di tale situazione è rappresentato dal fatto che Malta non dispone di un naviglio adeguato al fine di gestire la vasta e pretesa zona SAR, imponendo spesso l’intervento di soccorso ai pattugliatori italiani, con successivo trasporto dei naufraghi salvati in Italia.

Per quanto concerne la Libia la situazione si presenta invece in termini radicalmente diversi in quanto oltre a essere attualmente un Paese sotto il controllo di più fazioni, non ha mai proceduto in passato a istituzionalizzare i propri servizi di assistenza SAR.

La prassi applicativa evidenzia come ad un’attività di soccorso posta in essere in alto mare dalle navi private di uno Stato segua, non di rado, il rifiuto dello Stato più prossimo geograficamente o dello Stato responsabile per il soccorso e salvataggio di accogliere sul proprio territorio i naufraghi.

E’ vero infatti che, oltre a negare l’ingresso nel mare territoriale, lo Stato costiero può rifiutare l’ingresso nei propri porti conformemente all’art. 25 UNCLOS, in quanto la nave con a bordo irregolari viola la normativa nazionale in materia d’immigrazione.

Il diritto internazionale permette agli Stati di impedire l’accesso della nave nelle acque territoriali qualora ci sia il sospetto che l’ingresso della nave possa violare la sicurezza nazionale. Per l’articolo 19 UNCLOS il passaggio di una nave nelle acque territoriali di uno Stato è permesso “fintanto che non arreca pregiudizio alla pace, al buon ordine e alla sicurezza dello Stato costiero”. Il comma 2 precisa: tra le attività che potrebbero portare a considerare il passaggio non inoffensivo c’è anche “il carico o lo scarico di materiali, valuta o persone in violazione delle leggi e dei regolamenti doganali, fiscali, sanitari o di immigrazione vigenti nello Stato costiero”.

Nel nostro ordinamento il Codice della Navigazione stabilisce, all’articolo 83, che il Ministro dei Trasporti possa vietare, “per motivi di ordine pubblico, il transito e la sosta di navi mercantili nel mare territoriale”.

Pertanto non esiste sul piano internazionale un diritto soggettivo di ingresso nel porto dello Stato in quanto esso si trova nelle sue acque interne. Conseguentemente lo Stato costiero gode in tale zona di una sovranità piena il cui esercizio non può subire limitazioni, se non espressamente autorizzate dallo Stato stesso.

Alla luce dell’excursus normativo tracciato la salvaguardia della vita dei naufraghi va perciò garantita a patto che tale dovere sia assolto da tutti gli Stati in cui sono situati i “porti più sicuri” in “cooperazione”.

Allora, così stando le cose, appare del tutto evidente che il quadro normativo di riferimento lega, non poco, le mani agli Stati interessati al fenomeno de quo e soprattutto, per quanto consenta, seppur in astratto, l’adozione di azioni di respingimento dei flussi migratori via mare, richiede che le stesse non siano generalizzate, bensì ponderate caso per caso, attraverso un non sempre facile bilanciamento ex ante tra le esigenze umanitarie, da una parte, e quelle di contrasto del fenomeno migratorio via mare, dall’altra.

Il risultato è garantire equità nell’assunzione di precise responsabilità che discendono dal puro e semplice contesto geografico.

Avvocato Alfonso Mignone

Studio Legale Maffia & Mignone

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