Malta, 7 gennaio 2019 – L’espressione “chiusura dei porti” quando ci si vuole riferire alle misure che interessano le navi armate da ONG coinvolte nelle operazioni di salvataggio dei naufraghi. Il termine sta causando molte polemiche forse dettate da un’incomprensione sul senso che le viene attribuito e che porta qualche Presidente di AdSP a ritenere che il Governo abbia l’intenzione di creare un vero e proprio muro contro l’immigrazione, senza distinzioni o verifiche. Infatti in base al diritto internazionale marittimo non esiste la possibilità legale di chiudere i porti in modo totale ed indiscriminato e, a tutt’oggi il Governo non ha mai adottato una soluzione del genere mentre, come suo dovere, può operare caso per caso, vietando, in via precauzionale la sosta e il transito di una specifica nave mercantile che si sospetti violi le leggi dello Stato. In questo senso, e solo in questo, è possibile parlare di “chiusura dei porti” nei confronti di ogni singola nave mercantile (e le navi ONG sono da considerarsi mercantili in quanto noleggiate per scopi umanitari si ma sempre con finalità di lucro). Quanto al diritto interno occorre ricordare che l’articolo 83 del Codice della Navigazione (Regio Decreto n. 327 del 30 marzo 1942, come sostituito dal comma 2 articolo 5 della legge n. 51 del 7 marzo 2001), afferma che “Il Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti può limitare o vietare il transito e la sosta di navi mercantili nel mare territoriale, per motivi di ordine pubblico, di sicurezza della navigazione e, di concerto con il Ministro dell’ambiente, per motivi di protezione dell’ambiente marino, determinando le zone alle quali il divieto si estende”. Non emerge, dunque, alcun riferimento ad una indiscriminata “chiusura dei porti” ma solo interventi limitati e per motivi ben precisi. L’articolo 19 al comma 2 (lettera g) della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare firmata a Montego Bay il 10 dicembre 1982, ratificata e resa esecutiva in Italia con la legge 2 dicembre 1994 n. 689, stabilisce che “Il passaggio di una nave straniera è considerato pregiudizievole per la pace, il buon ordine e la sicurezza dello Stato costiero se, nel mare territoriale, la nave è impegnata in una qualsiasi delle seguenti attività: (…) g) il carico o lo scarico di materiali, valuta o persone in violazione delle leggi e dei regolamenti doganali, fiscali, sanitari o di immigrazione vigenti nello Stato costiero”. Quando, invece, si ritiene che il passaggio di una nave sia inoffensivo, non vi è nessuna necessità d’intervento da parte dello Stato; infatti, il comma 1 del suddetto articolo 19, stabilisce, invece, che “Il passaggio è inoffensivo fintanto che non arreca pregiudizio alla pace, al buon ordine e alla sicurezza dello Stato costiero. Tale passaggio deve essere eseguito conformemente alla presente Convenzione e alle altre norme del diritto internazionale”. Il Protocollo di Palermo del 2000, firmato a Palermo il 15 dicembre 2000, entrato in vigore il 28 gennaio 2004 e ratificato dall’Italia con legge 16 marzo 2006 numero 146, sembra confermare l’interpretazione che si sta dando: infatti, nel Protocollo si precisa la nozione di “smuggling migrants”, ossia traffico di migranti, intendendosi con questa espressione “il procurare, al fine di ricavare, direttamente o indirettamente, un vantaggio finanziario o materiale, l’ingresso illegale di una persona in uno Stato Parte di cui la persona non è cittadina o residente permanente”. Dunque, non sembra ravvisabile, nell’azione governativa la creazione di barriere insormontabili e disumane come a volte si dice usando l’espressione “chiusura dei porti”, ma semplicemente l’esercizio di un diritto, e di un dovere, da parte del Governo che, basandosi sul diritto nazionale ed internazionale, intende verificare che non si stiano commettendo dei reati. Qualora questi reati fossero accertati, sarebbe del tutto logica la chiusura del porto nei confronti di coloro che questo reato commettono, senza che questo comporti l’abbandono dei migranti, mai sostenuto dal Governo. Com’è noto, infatti, l’Italia aderisce alla Convenzione internazionale sulla ricerca e il salvataggio marittimo, adottata ad Amburgo nel 1979 e alla Convenzione del diritto del mare del 1982, che riflettono il diritto consuetudinario per quanto riguarda gli obblighi di salvataggio imposti, da ciascuno Stato contraente, ai comandanti delle navi mercantili e alle navi pubbliche di propria bandiera. La codificazione della norma consuetudinaria, che ha radici nella tradizione di solidarietà marinara, sancisce l’obbligo per gli Stati di garantire la vita umana in mare. La normativa qui ricordata non sembra contraddire quanto detto sopra, anzi la rafforza. L’Italia non ha in alcun modo rinunciato agli interventi necessari per ottemperare agli obblighi di cui sopra.
A.M.