A Gioia Tauro il vettore primo al mondo in flotta, nonostante abbia la quota del 33% del Medcenter Container Terminal, ha girato la prua delle navi e non tocca banchine calabresi ormai da molto tempo. Per il suo transhpment, cioè ai fini della propria economia organizzativa, preferisce altri porti “cheaper” e forse anche più funzionali a servire il Nord Europa, che anche a coda crisi si conferma, per ovvie ragioni, il traino della domanda sulla direttrice Suez-Gibilterra. Frequentemente tra quei contenitori trasbordati a Tanger o a Port Said alcuni sono destinati in Italia via Rotterdam, perché i caricatori esteri – visto che in Italia è anarchicamente diffuso l’acquisto commerciale franco destino così come la vendita franco fabbrica – vi trovano maggiore convenienza logistica e quindi economica.
Il transhpment dei contenitori segue una logica diversa da quella dei contenitori a destino, ma anche quella in generale dei vettori marittimi è a sua volta ben diversa da chi organizza i servizi di terra, che non sono delocalizzabili o trasferibili con la stessa rapidità dei sommovimenti, talvolta contingenti e volatili, e le ciclicità dei caricatori legati ai mercati di consumo e produzione, che determinano la domanda del trasporto marittimo, condizionandone le scelte dei vettori.
Allora questo dovrebbe condurre ad introdurre nelle discussioni in atto un elemento non assiomatico ma certamente problematico e cioè che il coinvolgimento nell’assetto societario dei terminal dei vettori marittimi non garantisce il traffico portuale che sia di gateway, di transhpment, o di destino. Ormai è notorio che quando l’economia dei mercati tira quel che conta è la velocità, l’efficienza, la sicurezza dei servizi, quando c’è crisi tutti vogliono risparmiare e spesso nei porti chi ne paga le maggiori conseguenze sono i servizi portuali a cominciare dalle imprese industriali terminaliste che subiscono le pressioni dei vettori che chiedono ulteriori sconti prima ed efficienza poi. L’Eldorado mediterraneo della convenienza per i vettori marittimi, che probabilmente rimetteranno i risparmi così accumulati ai porti del Nord Europa, sembrerebbe essere l’insieme dei porti del Nord Africa, che tuttavia attualmente è attraversato da turbolenze sociali di segno strutturale che bisognerà vedere in che termini si tradurranno nei porti e nelle esenzioni di cui finora hanno goduto.
È di questi giorni l’accensione dei riflettori sul parametro che determina la durata della sosta nave in banchina, che nel caso dei contenitori è di facile comprensione per la semplicità della sua unità di misura, il teu.
Il movimento orario è il risultato statistico della interazione di più fattori: organizzazione del lavoro di terra, qualità degli impianti del terminal, caratteristiche delle banchine, piani di carico nave, tecnologia e comando della nave stessa.
Un risultato che è il prodotto di un insieme di fattori che può variare da nave a nave ma anche da terminal a terminal per una stessa nave, specialmente se di paesi diversi dove, tra l’altro, l’attenzione delle imprese verso la sicurezza dei lavoratori assume purtroppo valori diversi. Tuttavia sotto la pressione della competitività che vuole margini sempre più ampi e in tempi concentrati, perché le ragioni della finanza speculativa hanno sopravanzato quella della finanza delle buone imprese, sta perdendo di vista la prospettiva umana, anche quando nella discussione si attribuisce un valore sopravalente al fattore umano. Metafora di ciò è la sua identificazione nel concetto di produttività, che sebbene sia già da molto tempo parte integrante del vocabolario dell’industria portuale, si è imposto all’attenzione pubblica italiana attraverso le ultime vicende Fiat.
Andrebbe osservato che in quel durissimo confronto nazionale sono mancati ragionamenti chiari sui concetti di sicurezza e salute delle persone che lavorano, quelli cioè che fanno progettare la produttività in termini di modelli organizzativi che assicurano i profitti monetari attraverso sistemi che valorizzano i diritti, le responsabilità di impresa e gli investimenti per la sicurezza. Questo processo, che è poi quello su cui si fondano sostenibilità, innovazione e valorizzazione del lavoro che aiuta all’abbattimento del malefico fenomeno dell’assenteismo, è ad uno stadio piuttosto avanzato nei porti italiani, in particolare nelle imprese terminaliste private. Al Sud il lavoro si dice “a’ fatica”, un termine retaggio di molte cose passate e presenti che niente hanno a che spartire con la dignità del lavoro e l’asseinteismo di chi ha la buona sorte di un lavoro vero in quei territori affamati dalla presenza mafiosa, ne è il suo peggior prodotto. Come per molti altri settori industriali, i terminalisti portuali sono lasciati soli a risolvere ciò che è irrisolvibile dalla singola impresa, mentre i grandi vettori marittimi spingono in tutti i modi a prenderne il posto nei porti, adottando logiche di opportunità e convenienza che esulano dalle impostazioni che integrano le attività economiche portuali nella cultura e nelle scelte delle popolazioni che vivono a ridosso.
La questione è quindi sempre la stessa: l’industria portuale sta andando in solitario, i porti sono entità tra loro e con il resto paradossalmente scollegate rispecchiandosi nella medesima condizione che caratterizza complessivamente l’economia italiana. La politica, quella che amalgama e pianifica creando sistemi di soddisfacimento collettivo, è la grande assente, determinando ed incoraggiando l’arte di arrangiarsi dei singoli all’interno di un sistema governato dal non governo in cui vale la forza dell’astuzia e magari qualche soldo, si fa per dire, preso da Pantalone. I risultati di questo si evidenziano maggiormente al Sud per la formazione di un tessuto produttivo industriale rarefatto, che rende l’imprenditorialità debole e ricattabile financo dal primo malavitoso, con lupara o con colletto bianco, che si presenta alla porta.
È tempo che si ricominci a ragionare in una prospettiva che vada ben oltre lo spazio di un’elezione e l’altra su problematiche difficili come quella della complessità dei porti, dei traffici commerciali e della logistica, con confronti di sostanza finalizzati alla messa in opera politica di strumenti che ci rendano organizzativamente competitivi, travalicando elencazioni e gossip del momento. Gioia Tauro potrebbe essere l’occasione buona per aprire questa nuova era.
G.V.