MARE MOSSO: EPPUR SI MUOVE

Nonostante l’in­­ce­de­re delle ferie estive, al lettore volenteroso di Mare Mosso lascio uno spunto di riflessione sullo studio presentato recentemente a Ro­­ma presso il CNEL dal provocatorio titolo “Far West Italia, il futuro dei porti e del lavoro portuale”. Svolto dal­l’ISFORT dietro richie­sta dei sindacati confederali, una volta tanto un’analisi innovativa dei porti ita­liani, focalizzata sul valore aggiunto garantito da un porto al territorio che lo ospita e ai grandi player che lo scalano: le imprese e il know how dei lavoratori.

La ricerca, condotta nell’arco temporale 2010/primi mesi 2011, incamera i concetti di corridoio e di sistema, concependo il porto come tappa di un percorso logistico integrato che inizia e finisce lontano dal mare, evidenziando che il vantaggio competitivo non si gioca tanto sul singolo porto, ma sul valore medio del risparmio di tempo e costo che l’intero percorso totalizza lungo tutto il tragitto. L’insieme di tali percorsi disegna lo scheletro portante delle economie globalizzate, che hanno concorso alla trasformazione mondiale delle operazioni portuali contraendone gli organici ed accrescendone la specializzazione in risposta alla standardizzazione dei carichi.

In Italia, mentre la teoria delineava e progettava sulla carta strategie e modelli per una piattaforma logistica nazionale intercontinentale, il sistema reale dei porti italiani sceglieva un’altra direzione, forse per la frantumazione dell’offerta portuale nazionale che risponde funzionalmente al modello produttivo italiano diffuso.

Da sempre gates principali dei prodotti energetici per il fabbisogno interno, i nostri porti hanno supportato lo scambio internazionale di materie prime, semi lavorati e prodotti finiti, seguendo e alimentando l’evoluzione industriale del Paese dalla grande industria di trasformazione fino all’affermazione delle PMI, diffuse, anche se più densamente nel Centro-Nord della penisola, su tutto il territorio nazionale. I dati raccolti dall’ISFORT nei 5 porti presi a campione per l’indagine sul campo (Genova, Gioia Tauro, Napoli, Ravenna, Trieste) ne confermano la funzione verso i territori a breve e media distanza: ad esempio, oltre l’80% dei container nel porto di Genova investe Lombardia (per circa la metà), Emilia Romagna e Veneto (il resto si ripartisce tra Liguria, Piemonte e Valle d’Aosta); nel porto di Napoli circa il 65% delle merci ha come origine o destinazione il territorio regionale, il resto in quelli confinanti.

Tuttavia, emergono alcune differenze. Appare evidente che il segmento contenitori segue la geografia industriale: nel 2010, al netto dei porti di transhipment, il 70% dei 5.777.300 TEU movimentati ha riguardato il quadrante tirrenico settentrionale (Savona Vado, Genova, La Spezia, Livorno); il 14% quello centro-meridionale (Civitavecchia, Napoli e Salerno); l’11,7% l’Adriatico settentrionale (Venezia e Trieste) ed il 5,1% quello centro-meridionale (Ravenna, Ancona, Bari e Brindisi). Invece, il traffico non containerizzato soprattutto RO-RO, sembra seguire gli addensamenti demografici, con valori piuttosto consistenti nei porti centro-meridionali dell’Adriatico e del Tirreno.

Mentre solo nell’ultimo decennio buona parte degli operatori logistici e del trasporto terrestri italiani sono stati acquisiti da grandi operatori internazionali, a partire dalla L.84/94 le imprese terminalistiche portuali con movimentazione di oltre 300mila TEU hanno cambiato quasi tutte la proprietà, diventando parte di grandi gruppi esteri. Ma il cambiamento radicale, in risposta all’intensificarsi dei ritmi di lavoro, alle possibilità di programmazione del ciclo produttivo in banchina ed al grado di flessibilità richiesto all’interno dello scalo, si è registrato principalmente nell’organizzazione del lavoro, che da 20.831 soci delle Compagnie portuali e 993 dipendenti di altre imprese nel 1993, è passata nel 2009 a 20.000 addetti totali, di cui solo 3.644 soci o dipendenti dei pool di lavoro temporaneo. Nella pratica, i traffici maggiormente programmabili, RO-RO e container, consentono ai terminalisti di gestire le attività con una maggiore autonomia; mentre le rinfuse solide e le merci varie, caratterizzate da maggiore indeterminatezza, richiedono un ricorso più consistente al pool di lavoro temporaneo. A Ravenna circa il 70% del traffico è composto da rinfuse solide e merci varie; a Trieste (rinfuse liquide 77%) 11% RoRo, 7% container e 4%; rinfuse solide; a Genova 33% container, 17% RoRo, 10% dry; a Napoli, con una equa ripartizione tra traffico di linea (51%) e non di linea (49%), 33% traghetti, 24% dry, 22 container; a Gioia Tauro c’è una concentrazione nel containerizzato.

Composizioni diverse di traffici e lavoro, nonostante la legge nazionale 84/94, hanno generato diversi modelli di funzionamento dei porti. A Ravenna il processo produttivo in banchina è fortemente integrato tra terminalista ed impresa art. 17; a Trieste, invece, è molto frammentato con 29 imprese art. 16, che prestano servizi in forte competizione al ribasso (che indirettamente ha contratto la spesa per la sicurezza dei lavoratori), determinando la progressiva diminuzione al ricorso fino alla messa in liquidazione della Compagnia portuale, sostituita di recente nelle funzioni da una nuova impresa collegata ai principali terminalisti dello scalo. A Genova l’impresa Compagnia Portuale ha tuttora una centralità relazionale ed operativa, ma registra un graduale minore impiego non solo per il ridimensionamento dei traffici, ma per una maggiore autosufficienza operativa delle imprese terminaliste, tendente anche a ridurre la frammentazione del ciclo operativo. A Napoli il ricorso al pool di lavoro temporaneo permane nel segmento dei traghetti e nella movimentazione di cellulosa, ma non è stato possibile evitare la CIG perché il segmento container gestito quasi in toto da un unico terminal, da un assorbimento del 50-60% del pool di lavoro temporaneo dal 2007 è passato alla completa autonomia operativa. Infine, il Porto di Gioia Tauro che non ha un’impresa autorizzata per l’erogazione di lavoro temporaneo e le poche imprese art. 16 presenti ne assumono indirettamente la funzione.

In tale varietà, l’integrazione dei porti in un modello logistico nazionale pone questioni rilevanti. Il modello di flessibilità, di competitività e di dignità del lavoro consolidatosi nel corso degli anni nei porti potrebbe essere messo in discussione da un approccio meno tutelato, tipico della logistica terrestre. È necessario un riallineamento delle condizioni di sicurezza, della tutela dei diritti e soprattutto della dignità del lavoro tra i due modelli, allontanando il rischio di metterli in contrapposizione limitando il confronto al costo del lavoro, sia che resti l’attuale configurazione dei sistemi portuali o in presenza dei grandi operatori dello shipping mondiale.

Lo studio, che nei prossimi mesi sarà integrato dall’analisi di altri 5 porti italiani, rileva anche che l’intraprendenza degli attori presenti nei porti è stata di fatto ridotta non tanto dalla reclamata autonomia finanziaria, quanto da un limite più istituzionale, legato alla collocazione ambigua della politica portuale a metà strada tra le competenze ancora in capo al governo nazionale e quelle devolute ai governi regionali e locali. Gli enti pubblici portuali dovrebbero pertanto assumere il ruolo di Authority indipendenti, che mettano in risalto il valore degli attori presenti e creino maggiore integrazione tra porto e territorio, senza scendere nell’arena delle contrapposizioni tra le lobby locali o costruirsi un ruolo di agenzia commerciale o di promozione, che invece potrebbe essere svolto da strutture tecniche dedicate. Occorre una regia che orienti le dinamiche commerciali del porto verso gli obiettivi di sviluppo e crescita sociale del territorio in cui è inserito; ed un arbitro in grado di garantire l’equità della competizione, il rispetto delle regole, la tutela dei diritti. Nascondersi, o confondere le acque serve a poco, secondo lo studio ISFORT, gli interessi in gioco sono troppo rilevanti e l’opportunità di evitare il confronto o la competizione poco credibile.

La compattezza del sistema portuale, oltre a gestire senza subire l’ingresso o l’interessamento dei principali operatori mondiali, servirebbe ad affrontare con più convinzione alcune questioni fondamentali per lo sviluppo dei porti quali i costi esterni generati dai transiti in porto delle navi e dal loro stazionamento in banchina; l’ingresso e l’egresso dei camion; l’uso più intelligente della risorsa ferroviaria; la formazione degli addetti per accrescerne le competenze a contrasto della riduzione dei posti di lavoro; una più determinata e soprattutto omogenea attenzione alla sicurezza del lavoro in porto.

I sistemi portuali nazionali se intendono approfittare delle opportunità legate al mercato nazionale ed internazionale dei trasporti, devono recuperare quello spirito di collaborazione e di pace sociale che gli ha consentito di superare le difficoltà nel corso della loro millenaria storia. Serve una comunità portuale più coesa, più attenta alle prospettive del porto di domani che al prevalere nei contenziosi di oggi. Solo attraverso uno sforzo comune sarà possibile accogliere i percorsi logistici integrati in partnership con i grandi operatori della logistica globale. Altrimenti la portualità nazionale, così come in parte già è avvenuto per buona parte della logistica lato terra, rischia di essere annessa all’interno di schemi e di priorità strategiche decise altrove.

 

Giovanna Visco

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