Giorni fa in una trasmissione televisiva di RAI News si è parlato del sequestro di un contenitore di merce contraffatta nel porto di Napoli, commentando “savianamente” l’accaduto come ennesima prova della corruzione di questo porto. Tra le tante orecchie e occhi che avranno seguito la trasmissione, a poche teste purtroppo sarà stato chiaro che l’unica prova reale di quel servizio giornalistico era di quanto siano lontane informazione, cultura e conoscenza dai porti e dalle merci. Con un po’ di buon senso, anche un non addetto ai lavori arriva a capire semplicemente – tralasciando persino dati e percentuali di movimentazione, verifiche ed esiti – che solo laddove si fanno i controlli la merce contraffatta viene scoperta e Napoli da anni è il porto più controllato in Italia e in Europa. Partendo da questa premessa logica, anche un non addetto ai lavori, purchè scevro da interessi di parte e da preconcetti, avrebbe potuto apprezzare l’operato di un porto che contrasta davvero la contraffazione. Chi conosce la dinamica degli scambi commerciali sa bene che il percorso della merce disonesta, contraffatta, fuorilegge o sottodichiarata non solo passa ovunque per ovvia ripartizione del rischio, ma soprattutto predilige percorsi dove i controlli sono a maglia piuttosto larga, come ad esempio nei porti del Nord Europa. Ma ciò che suscita preoccupante perplessità è riscontrare la persistenza di una medesima superficialità anche nei decisori politici. Non è un caso che dopo ben 7 anni di attesa si sia dato attuazione allo Sportello Unico doganale, fiore all’occhiello del Piano della Logistica varato pochi mesi fa, ma sotto un profilo meramente fiscale e assai poco logistico e portuale. Infatti il decreto della Presidenza del Consiglio di regolamento dello Sportello favorisce la svariata raccolta documentale delle merci internazionali, in uscita o in entrata nel nostro paese, in un unico sportello telematico, dotando le autorità competenti di una maggiore capacità di controllo sulle incongruenze che possono far trasparire eventuali frodi fiscali. Ma sull’altra faccia della stessa medaglia, il bisogno competitivo del nostro sistema economico logistico-portuale di migliorare i tempi e la qualità dei controlli, accorciandone la durata, e sincronizzando le diverse procedure e visite coinvolte su una stessa partita di merce, resta totalmente insoddisfatto. In altri termini, il decreto guarda soprattutto all’efficacia del controllo per combattere l’evasione di dazi e diritti doganali, tralasciando qualsiasi strumento che possa consentire quantomeno l’avvio del “momento doganale”, o one stop shop come si definisce in UE. Da una nota Confetra si legge che la durata dei controlli prodromici, per il Ministero dello Sviluppo Economico variano dai 2 giorni della certificazione di qualità ai 90 giorni per quella di rispondenza degli apparecchi radiotelevisivi, arrivando a 180 giorni del Ministero della Salute per l’autorizzazione delle acque minerali. Per i procedimenti contestuali la variazione, invece, da un’ora per lo svincolo doganale per il solo controllo documentale, passa a 12 ore per il nulla osta per i fiori recisi ed alle 72 ore per l’autorizzazione USMAF per indumenti usati in caso di visita, arrivando a 120 ore anche per il solo controllo documentale per l’autorizzazione del Ministero dell’Agricoltura per sementi sperimentali. Morale: la merce cattiva, che nessuno vuole, se ne va al Nord Europa e la merce buona, che tutti vogliamo, anche quella destinata o originata in Italia, lo stesso, perché qui perde troppo tempo, facendo perdere ai nostri porti lavoro e reddito. C’è poi un ultimo aspetto. In Italia gli spedizionieri doganali, dai dati pubblicati da una ricerca del CRESME, ammontano a 2250. Un universo che opera individualmente o in forma associata animando, secondo fonti CNSD (Consiglio Nazionale Spedizionieri Doganalisti) un comparto che impiega circa 10 mila lavoratori, che la rivoluzione copernicana telematica sta mettendo sotto fortissima pressione. Mesi fa si era sbandierata l’avvio della riforma degli Albo professionali, caduta poi nell’oblio. La stessa riforma della L. 84/94 dei porti richiede ulteriori passaggi nelle professioni che tradizionalmente abitano l’attività portuale, che tra l’altro presenta delle caratteristiche e delle esigenze uniche rispetto ad altri comparti industriali. Eppure su questo c’è un assordante silenzio, che invece richiederebbe un dibattito ed un confronto serrato, perché nessuna riforma ha mai funzionato senza il consenso di chi anima l’attività oggetto stesso di riforma, un consenso che può accettare anche trasformazioni strutturali, purchè necessariamente accompagnate, perché le professioni così come le persone che a vario titolo le esercitano, vivendoci e dando da vivere, non sono auto da rottamare.
Giovanna Visco