È dall’inizio dell’anno che i porti nordeuropei, tra cui Amsterdam, Rotterdam e Oslo, stanno man mano dando operatività all’indice ESI (Environmental Ship Index) (vedi Informatore Navale di Novembre 2010 – I porti del Nord Europa promuovono tasse portuali green) e pochi giorni fa anche il porto di Anversa ne ha annunciato l’applicazione imminente, riconoscendo uno sconto del 10% sulle tasse di ancoraggio alle navi a limitato impatto ambientale. Brevemente, è forse opportuno ricordare che l’ESI è un certificato volontario di punteggio da 0 a 100 (il massimo della virtuosità) ricavato da un insieme di variabili per indicare la performance ambientale della nave riguardo le emissioni di NOx (azoto), di SOx (zolfo) e di CO2 (Anidride carbonica). L’obiettivo dei porti è di incentivare le navi ad essere più pulite con uno strumento adatto a tutti i tipi di naviglio di qualsiasi dimensione e di facile implementazione nel sistema di routine dei controlli, ma l’indice può essere adottato anche indipendentemente da armatori, fornitori di servizi e caricatori per operare in modo ambientalmente sostenibile.
L’ESI nasce dalla piattaforma volontaria WPCI (World Ports Climate Iniziative) per l’individuazione di misure di contenimento delle emissioni dei gas serra, animata da 55 porti, di cui 25 europei ma nessuno italiano. Se poi si guarda al Mediterraneo si scopre che i nostri competitor vicini, Algesiras, Barcellona, Marsiglia e Valencia, ne fanno invece parte.
Nell’aggiornamento del Libro Bianco della Commissione Europea del 28.3.2011, si ribadisce che la mobilità sostenibile ha una dimensione mondiale ed è tassativo ridurre drasticamente le emissioni serra, impedendo contemporaneamente il declino europeo dell’industria e delle costruzioni dei trasporti attraverso la definizione chiara dei futuri scenari strategici ed il sostegno all’innovazione. Per le percorrenze stradali dai 300 km in su, insieme alla ferrovia, il trasporto su acqua rappresenta l’unica soluzione per ridurne l’impatto ambientale, che in una logica multimodale l’UE intende promuovere per tagliare il 50% del trasporto su gomma entro il 2050 con obiettivo intermedio del 30% entro il 2030, grazie a corridoi merci efficienti ed ecologici. La Commissione Europea ribadisce che nel trasporto marittimo occorre intervenire sul miglioramento dei combustibili, dei sistemi di propulsione e delle operazioni, per arrivare entro il 2015 ad una riduzione di CO2 dal 40% (soglia minima) al 50% (obiettivo auspicato) rispetto ai livelli del 2005.
È chiaro che a breve seguiranno i provvedimenti necessari a proteggere l’ambiente dal devastamento dei gas serra, su cui peseranno ragionamenti e misure già adottate dei porti nordeuropei. L’economia portuale italiana non potrà fare altro che subirne le conseguenze, o al massimo protestare e confrontarsi in scenari già definiti da altri. Questo sarà il prezzo della distrazione verso temi così strategicamente essenziali dei porti italiani, che sembrano sempre più autoconvinti che la competizione infrastrutturale all’interno del sistema paese sia quella di riuscire a mettere alcuni vettori marittimi nella gestione delle attività che sono terrestri. L’impressione è che a molti porti italiani sembrerebbe un danno piuttosto che un’opportunità di sviluppo l’esercizio di una governance che riconosca e premi le scelte dei vettori marittimi che, trasportino merci, passeggeri o croceristi, riducono il rilascio nell’atmosfera dei gas serra in prossimità dei porti. E se in Europa si pratica una portualità abbastanza lungimirante, la Nuova Zelanda favorisce e sostiene l’innovazione marittima nei porti a tal punto da spingere la Maersk Line ad implementare nei 9 porti di scalo un programma di utilizzo del carburante-switch a basso tenore di zolfo riducendone il rilascio nell’aria dell’ 80 – 95%. L’Italia invece si distingue in primitività, e pare che ancora non capisca che la salvaguardia ambientale è la più grande opportunità di sviluppo economico strutturale di questo nuovo millennio.
Un’ultima riflessione. Per decongestionare il porto russo di Novorossiysk sul Mar Nero, un gruppo di compagnie russe ha pianificato un investimento di $3,6 miliardi per la creazione di un nuovo porto a Taman, a cui si aggiungeranno $1,7 miliardi di denaro pubblico. I lavori inizieranno nel 2013 e saranno ultimati nel 2018. La capacità iniziale sarà di 66 milioni di tonnellate all’anno ma arriverà a 100 milioni. Ci sono, quindi, posti nel mondo che cominciano a pensare che avere molti porti potrebbe essere una ricchezza, per limitare il congestionamento che compromette l’accessibilità e la velocità del passaggio delle merci e per razionalizzare il trasporto conseguente su gomma delle partite, come del resto traspare anche in alcuni passaggi del Libro Bianco. Le previsioni future sono di aumento considerevole dei volumi delle merci trasportate, sulla base del mercato interno europeo dei trasporti ha un’estensione continentale di 500 mil di abitanti. In Italia invece si discute di chiudere i porti, salvandone poco più che un paio. Logiche affaristiche e lobbistiche esterne cercano di prevalere sulla complessità dei porti e degli scambi commerciali determinati dalle produzioni e dai consumi, imbavagliando ragionamenti in termini di economia, lavoro e sviluppo sostenibile, i tre fattori principali che danno dignità e futuro ai porti.
Giovanna Visco